A proposito di Giuliano, Basilissa e Genesia


La gloria dei Santi Giuliano e Basilissa, particolare. 1747, Mattia Franceschini. Duomo di Chieri

La gloria dei Santi Giuliano e Basilissa, particolare. 1747 ca, Mattia Franceschini. Duomo di Chieri

Uno studio fatto sulla base di documentazioni vere ma anche irrorato con una buona dose di fantasia che, in certi casi complessi e nebulosi, proprio non guasta. Non ha infatti la benché minima pretesa né, del resto, per certi importantissimi aspetti, nemmeno l’oggettiva necessità di andare a cercare le prove che danno credito agli appellativi di “Santo” e di “Santa” conferiti a tre pionieri cristiani d’Oriente venerati a Chieri. Si chiamano rispettivamente Giuliano, Basilissa e Genesia. Si intende quindi prendere per buona la traccia tramandataci dai nostri avi, alla quale la tradizione popolare fa riferimento da secoli, ammettendo implicitamente la legittimità delle tre aureole.

 

Ma la “vox Populi” non può né deve sempre equivalere totalmente alla “vox Dei”. Chi legge, credente o meno, si unisca quindi a chi scrive e tenga se non altro presente l’estrema disinvoltura con la quale, in un ben definito lasso temporale della Storia della Chiesa, il Medioevo, ebbe a diffondersi, in tutta la Cristianità, ma a cominciare proprio dall’Oriente, il culto delle reliquie, vere e false, di Santi a loro volta moltiplicabili, fino allo sconfinamento in una sorta di commercio intercontinentale. Ciò venne avallato di buon grado dal potere centrale, per almeno due ragioni: contrastare il più possibile, con simboli comunque forti, tangibili e ben definiti, l’espansione dell’Islamismo; dare un minimo di dignità religiosa alla carneficina gratuita che si rivelò essere l’avventura delle Crociate.

 

Nel contempo gli “Infedeli” (prima gli Arabi e poi gli Ottomani) capirono in fretta l’importanza dei Santi cristiani orientali e delle loro reliquie, non solo dal punto di vista del soprannaturale, ma soprattutto da quelli culturale e politico: abilissimi diplomatici, contribuirono notevolmente, usandole come omaggi e doni, a diffondere in Occidente la conoscenza di personaggi che altrimenti rischiavano di restare noti solo nelle zone d’origine e ad alimentare il culto dei venerabili resti terreni di costoro.

 

Pur essendoci tanti Giuliano e qualche Basilissa assurti agli onori degli altari e forieri di varie confusioni, la “nostra” coppia non ha certo fatto eccezione; anzi: facilmente identificabile (il Martire e la Vergine), risulta essere nota al di qua del Mediterraneo proprio dall’avvento delle Crociate, con Basilissa che riveste spesso ed anche da noi un ruolo preminente rispetto a quello di Giuliano. Stavolta dobbiamo quindi credere senza riserva alcuna perfino al canonico Bartolomeo Valimberti. Tocca infatti a questo storico di cose locali, generalmente di parte e sovente fazioso, trasmetterci con sincera meticolosità, nel suo monumentale lavoro sul Duomo chierese, copiose notizie dalle quali traspare con chiarezza l’importanza particolare data fin dalle origini a Santa Basilissa: il che relegherà a lungo il consorte San Giuliano ad un rango inferiore.

 

Non mancano comunque le chiese ed altre sedi di culto dedicate ad entrambi non soltanto in Italia. E Roma “Caput Mundi” pare voler fare ovviamente la parte del leone per quanto concerne le loro reliquie. In un simile contesto storico va da sé che, per quanto riguarda l’autore, i concetti spesso contrapposti e incompatibili di fede (valore assoluto) e conoscenza (beneficio del dubbio) possano vantare in misura identica la possibilità di far breccia nelle coscienze di noi tutti, se non addirittura di coesistervi senza contraddizioni.

 

 

 

Uno dei più enigmatici misteri che ancora avvolgono la Chieri del Medioevo, nel passaggio dal Feudalesimo al Comune, è costituito dalla presenza nell’Insigne Collegiata di Santa Maria della Scala, comunemente chiamata Duomo, di una parte delle reliquie, quelle sigillate e non visibili, dei Santi Giuliano e Basilissa, patroni dell’Agro Chierese. Le altre, che erano inserite in magnifici reliquiari, in parte pezzi unici d’importazione fiamminga, andarono disperse in seguito al furto perpetrato nel 1973. La storia dei due sposi d’Oriente è sempre stata raccontata dagli eruditi locali a grandi linee, badando ben più all’enfasi ed alla suggestione religiose, piuttosto che ad una sostanza basata su autentici e quanto più possibile documentati studi. Fu tra la fine del Trecento e l’inizio del Cinquecento che vennero commissionati i preziosi reliquiari di cui sopra, che costituirono per cinque secoli i pezzi forti del “Tesoro del Duomo”. Le opere fiamminghe di sommo livello erano giunte in città per iniziativa del canonico Enrico Rampart da Lovanio, ben più di un chierese acquisito. Queste committenze internazionali contribuirono a dare prestigio alle iniziative più “terra a terra” intraprese dal canonico Antonio Carboni, autentico “esperto” nel reperire, maneggiare (manipolare) e riordinare tutte le reliquie di cui conosceva l’esistenza. Erano ovviamente comprese quelle di cui si sta trattando. Per quanto possibile si sono registrate ricognizioni, serie, anche in epoca moderna. A prescindere è da ritenersi consono ai tempi nostri un aggiornamento che, pur con tutti i limiti del caso, costituisca il punto di partenza verso un minimo di credibilità storica. Come? Ponendo innanzitutto, con estrema precisione, alcune domande fondamentali e provando a dare finalmente risposte il più possibile oggettive. Chi ci portò effettivamente le reliquie in questione?… Quando?… Da dove?…

 

 

LA TRADIZIONE – Il mite e colto Giuliano, detto l’Ospitaliere, per il gran numero di sacerdoti e fedeli cristiani ai quali doveva aver dato ricetto in casa propria, muore di morte violenta sotto il preside Marciano, imperatori Diocleziano (243-313) proprio per l’Oriente (capitale Nicomedia) e Massimiano (Milano) per l’Occidente. Basilissa, moglie di Giuliano, rimasta vergine così come il marito, secondo una scelta del resto non rara a quei tempi, non viene invece martirizzata e decede in modo naturale: secondo quanto descritto in una delle quattro tavolette in legno scolpito del Secondo Cinquecento e dorato (nell’Ottocento), che si trovano nel Duomo chierese, sopra l’altare della Cappella della Madonna del Carmine e sotto una tela seicentesca che ritrae i due a sua volta, la morte sarebbe avvenuta prima del consorte. Parti corporali della coppia, alle quali vanno unite quelle di una tal Santa Genesia, a sua volta illibata e definita discepola di Basilissa, sono trasportate a Chieri da un “cavaliere crociato di questi luoghi”, dopo la liberazione di Antiochia di Siria, avvenuta nel 1098.

 

Le reliquie sono deposte nella chiesuola, o cappella che dir si voglia, di Sant’Anna, tra Chieri e la vicinissima Andezeno: come vedremo non si tratterà di un luogo casuale. Diroccato l’edificio sacro a causa delle continue guerre, si teme che i resti di questi Santi possano essere violati e dispersi: sono perciò interrati in un podere vicino. Col tempo se ne perde però la memoria, finché il 21 maggio 1187 un contadino che dissoda il campo si scontra per caso con l’aratro nella cassetta delle reliquie. La voce corre e tra gli abitanti di Chieri e di Andezeno sorge la disputa per entrarne in possesso. Dirime la questione Arduino di Valperga, vescovo di Torino: il prezioso tesoro verrà posto su un carro trainato da due giovenchi non ancora domati, lasciandoli liberi al bivio tra i due siti e si deciderà la loro collocazione in base alla direzione che avranno preso. Si narra che le bestie, scelta la strada per Chieri, siano giunte di gran carriera fin dentro il Duomo, fermandosi solo davanti all’altare maggiore. Da allora, ufficialmente ogni 21 maggio, praticamente in date variate nel corso del tempo, ma sempre messe in relazione alla prima, gli agricoltori locali portano in processione su un carro trainato da due buoi le reliquie dei loro Santi patroni. Si tratta di una tradizione bellissima, di cui Chieri può andare fiera perché solo sua, anche se non è mai stata valorizzata come meriterebbe.

 

 

LA SITUAZIONE – Studi d’età moderna, benché non identici, risultano simili nelle conclusioni e rimaneggiano la nostra credenza popolare. Vi sono agiografi che mettono addirittura in discussione l’esistenza di entrambi i coniugi. Pur se fondatore di un ospedale Giuliano, nobile fattosi cristiano, non è comunque l’omonimo Ospitaliere; si sposa, quasi diciottenne, per volere dei genitori, benché desideri abbracciare la vita religiosa; fa voto di castità; fonda un monastero maschile e si dà alle opere di carità; è torturato e decapitato sotto Diocleziano, per ordine del governatore Marciano, insieme a Celso (figlio convertito di Marciano), Antonio, Anastasio ed un certo numero di compagni anonimi, tra cui venti soldati e sette fratelli. Marcianilla, madre di Celso, si converte come il figlio e riceve il battesimo dal prete Antonino per poi fare, in un secondo tempo, la “solita” brutta fine.

 

Basilissa (in greco: regina), cristiana anch’essa, resta a sua volta illibata d’intesa con il marito; fonda un monastero femminile; non si sa come sia morta: una leggenda postuma dirà di morte naturale, con altre vergini. Se ne festeggia l’onomastico il 9 gennaio. I due sono d’Antiochia solo secondo i Latini: i Greci, a ragione, li assegnano infatti ad Antinoe (oggi Esnech o Esench) nella Tebaide egiziana (capitale Tebe), attuale Egitto meridionale. Il che non esclude tuttavia che ad Antiochia alcuni loro resti, quelli che ci interessano, siano proprio arrivati. Godettero di una grande reputazione ed erano venerati già prima dell’Ottavo Secolo. Loro reliquie sono segnalate nel Diario Romano del 1926: nel giorno di Pentecoste si esponeva la testa di San Giuliano nella basilica di San Marco.

 

 

IL BUIO STORICO – Facendo un’analisi elementare del suddetto racconto, piace rilevarne subito gli aspetti più genuini, a cominciare dal fatto che Diocleziano sia passato ai posteri proprio per aver perseguitato alla grande i Cristiani. Ironia della sorte: fu anche artefice di una grande riforma monetaria. Le due caratteristiche che più colpiscono, a loro volta entrambe verosimili e credibili, a prescindere dal luogo d’origine dei Santi Giuliano e Basilissa, sono comunque quelle del riferimento ad un cavaliere crociato, ovviamente di nobili natali, nonché del trasporto delle reliquie, si presume via mare considerando anche gli stretti rapporti che Chieri intrattiene con le più vicine città portuali di prima grandezza, vedi Genova. Non a caso quest’ultima operazione appariva tutt’altro che facile. Possedere e commerciare reliquie fu sì una pratica diffusa soprattutto a buon pro dei ceti altolocati, ma solo un personaggio potente, protetto da una scorta adeguata, avrebbe potuto preservare contemporaneamente, fino all’arrivo in patria, la vita ed il bottino. Il buio storico resta evidente a prescindere.

 

LA DATA – Dà indubbiamente campo a varie interpretazioni: potrebbe infatti essere vera ma anche approssimativa o addirittura inventata, comunque scelta di proposito, in concomitanza con un evento bellico eclatante. Ed è troppo a ridosso con fatti non meno importanti e più pertinenti con la parte più attendibile della nostra storia. Vero quindi che l’anno 1098 sia stato proprio quello della liberazione di Antiochia di Siria; ma anche vero che preceda di pochissimo la fine della Prima Crociata (1096-1099), quella che ebbe una coda, nel 1100-1101, nota come “Crociata dei Lombardi”, perché vi aderirono proprio i cavalieri italiani del Nord, con in testa i Piemontesi. Cosa c’entra Antiochia di Siria? Il cavaliere trovò lì le reliquie? Vi erano state portate, in precedenza, dalla Tebaide?…

 

Considerando che faceva parte del Tesoro del Duomo una statuetta d’argento alta 50 centimetri, superba testimonianza d’arte fiamminga del Quattrocento (dono dei nobili Valimberti, anno 1476), trafugata con altri pezzi nella notte del 12 luglio 1973 e raffigurante San Giuliano d’Antiochia Martire (ne conteneva un dente), si è indotti a dare una risposta generale positiva; la definizione “San Giuliano d’Antiochia Martire”, offuscata dalle fonti attuali, è invece da definirsi forzata.

 

 

LE RELIQUIE – La loro è una storia come minimo strana e travagliata, visto che hanno subito svariate manomissioni. Nel 1388 l’orafo Nicolao de Subrinis cesellò nell’argento il braccio vestito con la mano aperta per contenere un avambraccio di Santa Basilissa; misura 65 centimetri d’altezza. La mano ebbe una gemella coeva, alta 5 centimetri in più, contenente una parte ossea del braccio di San Giuliano. Facevano entrambe parte del Tesoro del Duomo, al pari della già descritta statuetta nordica di San Giuliano d’Antiochia (quella del dente) e, all’opposto di quest’ultima, vennero recuperate dopo il furto del 1973: ma erano purtroppo entrambe state private dei rispettivi frammenti ed anelli. Per quella di Santa Basilissa si trattava addirittura del prezioso anello pontificale donato da papa Sisto IV, alias il cardinale Giuliano della Rovere, già a Chieri come conventuale e poi anche al servizio dell’inaffidabile monarca francese Carlo VIII.

 

E Genesia? Siamo di fronte ad una terza figura aureolata, Genesia d’Oriente, della quale si dice solo che fu “al seguito” degli sposi egiziani. Non ci sono altri riscontri. Ma nel Tesoro del Duomo non poteva mancare, con quelle di Giuliano e Basilissa, un’opera d’arte orafa fiamminga del Quattrocento ad essa dedicata: un preziosissimo dono, a sua volta sparito nel 1973, del canonico Rampart, originario di Lovanio. Il bustino-lipsanoteca di Santa Genesia risultava essere dotato di una reliquia “sui generis”: un frammento del cranio della discepola, ovviamente postovi di persona dal già presentato canonico Antonio Carboni, come lasciò scritto nel suo “Inventario” delle reliquie del Duomo, risalente alla prima parte del Cinquecento, stesso periodo della cassetta-reliquiario attuale. L’Inventario delle Reliquie del Carboni è inserito alla C. LXXVII della “Vita Sanctorum Iuliani Martiris et Basilisse Virginis”, 1526-1527. In: Archivio Capitolare del Duomo.

 

Nel III e IV Secolo, durante l’infuriare dell’Arianesimo, alcuni degli antichi municipi romani avevano perso il loro Vescovo e tra essi ci fu Chieri. Nella cripta dell’Insigne Collegiata di Santa Maria della Scala venne collocata, nel corso dei “famosi” restauri diretti dall’architetto conte Edoardo Arborio Mella, la lapide di una tal Genesia, dopo che era stata rinvenuta sulla facciata dell’edificio nel 1875. Ma si trattava di una pura omonimia. La lapide contiene infatti  l’iscrizione funeraria che ricorda una bambina di due anni, morta l’8 giugno 488 ed è la più antica di Piemonte e Liguria. La cassetta-reliquiario portata ogni anno in processione, centimetri 91 di lunghezza, 38 di larghezza e 49 di altezza, è quasi tutta d’argento, con parti dorate su sfondo di velluto rosso. Si tratta di una pregevole opera d’arte orafa del 1515. Su una delle due lamine, entrambe lavorate a sbalzo, sta scritto: “Inventio S.rum Juliani ed Basilissae corpora per boves conduntur sine viatore ad templum Divae Mariae de Scala”. Nel 1679 venne restaurata per volere del Capitolo del Duomo. Ne contiene una seconda, di piombo, con i resti dei santi.

 

 

IL CAVALIERE CROCIATO DI QUESTI LUOGHI – L’identità del crociato in ballo si può ricercare, per quanto azzardando e tuttavia senza contraddire la sostanza, in tre contesti storici, tutti precedenti il fatidico 21 maggio 1187.

 

Contesto uno: la Prima Crociata (1096-1099). Sappiamo che vi presero parte cavalieri pionieri di famiglie nobili piemontesi, tra i quali Francesco Cordero, un non meglio identificato della Chiesa, due Roberto di Castelvero; Baldassarre e Giovanni Provana si distinsero addirittura proprio nella conquista di Antiochia, tirata in ballo dalla leggenda di Giuliano e Basilissa. Sono quindi i Provana i primi Crociati che più incuriosiscono e sui quali vale la pena soffermarsi per costruire ipotesi non cervellotiche: il capostipite è Uriasio, morto nel 1040. Incerta invece l’origine della famiglia: sebbene Uriasio sia attivo a Susa, la tradizione più antica assegna a Carignano, poco distante da Chieri, la palma di patria dei Provana. Costoro daranno comunque origine a parecchi rami genealogici e spazieranno non solo in Piemonte ed in Italia, ma anche in Terrasanta ed in Francia, risultando altresì protagonisti di prima grandezza nelle vicende della stessa Chieri.

 

I Provana d’Oriente. Con le reliquie dei Santi Giuliano e Basilissa i primi Provana d’Oriente hanno senz’altro in comune le date e le vicende storiche di quei siti. Giovanni e Baldassarre discendenti di Uriasio lasciano le loro terre e si fanno Crociati (Prima Crociata); partecipano alle conquiste di Tripoli, Antiochia (1098), Cesarea e Ioppe. Uno dei due fratelli diventa addirittura governatore di Acri ed Ascalona su nomina di Goffredo di Buglione; Baldassarre muore in battaglia mentre Giovanni sposa Paolina Galerizia, figlia di un barone francese consanguineo di Baldovino re di Gerusalemme e, alla sua morte, viene sepolto nella chiesa di San Giovanni Crisostomo, proprio a Gerusalemme. Né Giovanni né Baldassarre hanno quindi i requisiti necessari per essere inseriti tra i pretendenti al titolo di “cavaliere crociato di questi luoghi” che, tornando a casa, portò con sé le reliquie dei Santi Giuliano e Basilissa, dopo la liberazione di Antiochia. Ma non è da escludere che si possa avere agito per delega, affidando (da parte di uno o di entrambi i fratelli) il prezioso tesoro ad un personaggio di fiducia, che rientrava in patria. Lo stesso si può dire per il figlio di Giovanni, Anastasio: fu nominato da Baldovino, per le proprie doti di guerriero, tra i quattro principi del Regno di Gerusalemme. Sposò la figlia di un nobile di Casa Saluzzo ed ebbe un figlio, Manuele e due figlie, che andarono l’una sposa del conte di Tripoli e l’altra del signore di Saida; concluse la propria esistenza come monaco eremita. I Provana d’Oriente che seguirono ci portano oltre la fatidica data del 1187, 21 di maggio e vengono perciò esclusi da qualsiasi tipo di credibile considerazione.

 

Un’altra “nostra” stirpe presente alla conquista di Antiochia del 1098 e che perciò potrebbe avere a che fare con l’arrivo delle reliquie è quella dei Roero: dal suo albero genealogico germoglierà oltretutto un ramo che si fortificherà anche a Chieri. Il nome circoscrive l’omonimo territorio situato nell’imminenza delle Langhe, non lungi da Chieri. Ghiglione, cavaliere fiammingo documentato, prese parte alla Prima Crociata, al seguito di Roberto II conte di Fiandra e si sarebbe distinto per aver battuto in duello un cavaliere nemico. La singolar tenzone si svolse secondo le più classiche regole della cavalleria. Di fronte uno schieramento cristiano ed uno musulmano, i rispettivi comandanti scelsero ciascuno il proprio campione. Le tre ruote sullo stemma indicherebbero quelle del carro su cui il vincitore fu portato in trionfo. Un’inequivocabile iconografia di questo stemma è costituita in Chieri dal soffitto ligneo quattrocentesco di Casa Ceppi, già Bertone (ospizio dei Balbo) e Bobba, nel quartiere di Vajro, recentemente riportato alla ribalta. Ghiglione si sarebbe poi trasferito in Piemonte dopo la Crociata, dando origine alla famiglia Roero. Con simili credenziali va da sé che questo baldo crociato possedesse i requisiti necessari per portarsi appresso delle reliquie, andando anche in capo al mondo.

 

Contesto due: la “Crociata dei Lombardi” (1100-1101). Il personaggio in questione poteva essere benissimo non solo genericamente un nobile di Chieri o dei paraggi, ma nello specifico un Biandrate. Esattamente Guido “il Grande”. Nell’appendice guerresca in questione i conti di Biandrate, che già erano elementi di primissimo piano nell’ambito della storia chierese, furono infatti più che presenti. Quali? Quanti? Le fonti confondono le idee. Per una, contraddittoria, il conte Alberto, il fratello Guido ed il nipote Ottone Altaspada. Per un’altra, la più seria e credibile, i Guido furono due, fratello e figlio di Alberto. Per una terza, la meno sostenibile, solo Alberto ed Ottone Altaspada, perché Guido viene definito senza mezze misure figlio e non fratello del conte.

 

Sappiamo che il conte Alberto era uno dei comandanti, ma ci sarebbe secondo alcuni da non escludere che tale onore sia spettato al fratello Guido. Questo crociato, comunque, non fu quasi certamente lo stesso Biandrate destinato di lì a poco a salire alla ribalta con l’appellativo di Guido “il Grande”. E che il figlio del conte Alberto già comandasse nel 1100-1101 sembra inverosimile: troppo giovane, visto che farà parlare di sé almeno fino al 1158. L’esercito italiano, all’opposto degli altri già sul posto, fu del tutto improvvisato: una sorta di masnada alla quale si erano uniti pellegrini, donne, bambini, ecclesiastici ed esseri umani d’ogni specie. Del consanguineo Ottone Altaspada Biandrate si sa ben poco, neppure come fosse finito in Oriente. Sicuro però che laggiù trovò la gloria e la morte: della sua fine narra Alberto di Aquisgrana; nel settembre del 1104, Ottone faceva parte della guarnigione che difendeva Giaffa, fu sopraffatto in uno scontro col nemico e rimase ucciso. Alberto rientrò invece in Italia nel 1103; l’anno prima aveva celebrato la Pasqua a Gerusalemme: un’ottima sede per procurarsi reliquie. Il Guido fratello di Alberto in questa crociata invece non lasciò traccia: un motivo in più per salutarlo.

 

Contesto tre: la Seconda Crociata (1147-1149). I Biandrate non si limitarono a prendere parte alla coda della Prima Crociata o “Crociata dei Lombardi”, che è quella della confusione di cui sopra. Rimasto orfano di padre in tenerissima età (poco dopo il 1114), il “nostro” Guido fu certo presente nella Crociata seguente, la Seconda: vi conobbe Federico di Hohenstaufen o di Svevia, futuro imperatore e, del Barbarossa, doveva diventare seguace fedelissimo. Anche questo contesto, per quanto più tardo rispetto alla tradizione, pare quindi fatto apposta per ipotizzare di vedere le reliquie che ci interessano passare, grazie a Guido (con o senza il Barbarossa), dall’Oriente al Chierese. Le presenze dei Biandrate in Terrasanta non si esaurirono neanche stavolta: ci furono anche nella Terza (1189-1192), che venne condotta di persona contro il Saladino, proprio dal famoso Barbarossa, nato nel 1121 e morto laggiù per annegamento nel 1190. Ci furono infine nella Quarta (1202-1204) con Bonifacio di Monferrato.

 

A proposito del Saladino. Nato nel 1138 e morto nel 1193, El Melik Nassir Salah ed-din Jusuf ebbe grande parte nella storia dell’Egitto musulmano, di cui divenne sultano; e, poiché Giuliano e Basilissa furono cittadini della Tebaide, l’accostamento ci sta: sarebbe quindi clamoroso ma non assurdo lo scoprire che le spoglie degli sposi in questione abbiano costituito perfino un tangibile segno di omaggio, del resto abituale nella diplomazia locale, che era non solo raffinata ma anche tollerante sul piano del culto religioso, fatto proprio a chissà chi e chissà perché dal Saladino stesso. Ovvero da colui che seppe portare l’Egitto ad un livello di civiltà mai più eguagliato.

 

 

LE MONETE DEI CROCIATI – Sette furono le tipologie monetali (denari) ufficiali della Prima Crociata: “Erat haec nostra moneta: Pictavini, Cartenses, Manses, Luccenses, Valenziani, Melgorienses, et… Pogesi” (di Poitiers, Chartres, Le Mans, Lucca, Valence, Melgueil e Le Puy; fonte: Lucia Travaini); mercanti e viaggiatori potevano portarne con sé in Oriente senza bisogno di cambiare sul posto in altra moneta. Presto però la brama di esercitare ed ostentare il potere è deleteria anche sotto il profilo monetale: tanti Staterelli, frantumazione del potere, frantumazione del denaro. Eccoci allora alle prese con una serie locale di tipologie “fai da te” modeste in ogni senso, che si distinguono addirittura, tanto per cominciare, in chiave estremamente negativa, essendo frutti a dir poco rozzi di disinvolti e spregiudicati riciclaggi, miranti ben più alla sostanza che alla forma. Finirà così: gli stessi Cristiani preferiranno di gran lunga la monetazione aurea degli odiati Musulmani, fino al punto di coniarne anche le scritte.

 

Un nuovo sistema non solo monetario, ma economico-commerciale rivoluzionario, lo creano altresì gli Ordini Cavallereschi, i più potenti dei quali risultano essere i Templari, costituiti in maggioranza da Francesi e i Sangiovanniti, a forte maggioranza tedesca, dai quali doveva propagarsi l’Ordine dei Cavalieri Teutonici, nel quale ci imbatteremo direttamente più avanti. Saranno proprio gli Ordini Cavallereschi, con le città mercantili, su tutte Venezia, i primi “banchieri” dei Crociati, costretti sotto ricatto perfino a far la guerra a Costantinopoli.

 

 

I BIANDRATE –  Saliti alla ribalta nella “Crociata dei Lombardi”, i Biandrate erano destinati ad assurgere al ruolo di assoluti protagonisti nella storia di Chieri. Ma costoro da dove saltavano fuori? Che facevano dalle nostre parti? In seguito a quel meccanismo perverso che fu il Feudalesimo ed alla lotta tra il potere religioso e quello laico allora in corso, destinata ad inasprirsi dopo la morte della marchesa (e poi contessa) Adelaide (1091), sul nostro territorio stazionavano, a cavallo tra il Primo ed il Secondo Millennio, parecchi intrusi: i marchesi di Torino, il vescovo di Torino, i Canonici del Capitolo cattedrale torinese. C’erano altresì i possedimenti dell’Abbazia di San Silvestro di Nonantola (Modena), alla quale nel 1034 subentrarono i conti di Pombia (Novara), dopo uno scambio di beni. Stranamente, però, proprio dal 1034 i documenti che riguardano le terre di Chieri e del Chierese non accennerebbero più ai Pombia.

 

In verità una ragione c’è: l’interferenza vincente dei Vescovi di Novara. Probabile quindi che i conti di Pombia, dopo aver perso i territori del Comitato d’origine, si siano riciclati in conti di Biandrate (località anch’essa nel Novarese), prendendo possesso sotto queste nuove spoglie anche di quanto ricevuto in seguito allo scambio con Nonantola. Fatto sta che alcuni di questi stranieri qui vennero e qui piantarono le radici, contribuendo ad iniziare una Signoria destinata a scrivere anche la storia della stessa Chieri, proprio mentre questa stava cercando di darsi un’identità senza lacci né laccioli: una pia illusione, nonostante le progressive crescite di Comune e Repubblica.

 

Guido Biandrate, maritato alla sorella del marchese Guglielmo III di Monferrato, piccolo di statura, pesante e grassoccio, di carnagione scura, con i capelli neri, conosceva dunque, fin dalla Seconda Crociata, il Federico futuro imperatore: ovvero colui che, a noi inviso per avere danneggiato gravemente la ribelle Chieri nel 1155, gli avrebbe confermato due volte (1152 e 1156) il diritto ai titoli nobiliari che possedeva. Ne era infatti, come sappiamo, un seguace fedelissimo. Non solo: è provata l’investitura della stessa Chieri, corte e castello, fattagli in nome dell’imperatore dal vescovo Carlo della diocesi torinese, datata agosto 1158; non ebbe fortuna: l’anno dopo Chieri passò per intero proprio al vescovo di Torino.

 

Nel 1187, ritrovamento dei resti dei Santi Giuliano e Basilissa, Chieri era sempre più insofferente verso l’autorità vescovile e sempre più entità comunale, mentre la corte ed il castello di Andezeno rappresentavano più che mai un feudo dei Biandrate, superiore alla stessa Chieri: un feudo che sarebbe diventato chierese, mediante compravendita, solo nel 1290. Più che dal campanilismo il diverbio sfociato nella fantasiosa corsa del carro tirato dai buoi fu causato allora dal diritto di prelazione che i conti di Biandrate intendevano esercitare sulla cassetta, visto anche che era stato un loro consanguineo ad averla portata dall’Oriente? O fu l’omaggio a Chieri da parte di un potente ed interessato “vicino di casa”?…

 

 

I TANA – Nonostante qualche dubbio residuo è sostenibile che la famiglia Tana sia stata una delle più illustri della zona facente capo a Chieri e che il suo capostipite, Ugone, sia giunto in Italia al seguito di Federico Barbarossa. Ugone Tana sposò guarda caso Anna, figlia proprio di Guido di Biandrate; il fatto che avesse impalmato la rampolla di un esponente delle più potenti famiglie del Nord Italia avvalora l’ipotesi di un lignaggio altrettanto altolocato. E poiché di Ugone si hanno notizie nel 1158, il medesimo anno in cui i Biandrate vengono infeudati della corte e del castello di Chieri, è scontato che ne sia stato feudatario a sua volta. Nel contempo è accertato storicamente che un tal Heinrich Walpot, detto anche di Walpurga, diventasse il primo Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici.

 

Nel Santenotto, antico possedimento dei Tana, un vecchio quadro particolare va a raffigurare “Enrico Tana di Walpurga, detto anche di Walpot”. La suddetta scritta è in latino e il personaggio veste un abito da cavaliere teutonico. Il che, se preso per vero, non dice tutto ma istiga parecchio: non si può così escludere che Ugone ed Einrich fossero parenti stretti e che siano entrambi stati al seguito del Barbarossa. Non sappiamo se insieme o in due fasi distinte, benché Federico scorrazzasse a più riprese tanto in Italia, quanto alle Crociate: qui ci doveva perfino lasciare le penne. Riepilogando, fatte tutte queste considerazioni, non è un’eresia supporre che, con l’imprimatur imperiale, Ugone si sia stanziato proprio in Italia, mettendo su casa a Chieri ed Heinrich sia divenuto prima crociato e poi fondatore dell’Ordine Teutonico.

 

 

CONCLUSIONI  –  Il crociato della nostra storia fu dunque un personaggio al servizio dei Provana o Ghiglione Roero o Alberto Biandrate? Oppure, con o senza l’intercessione del Barbarossa o magari perfino del Saladino, il famoso Guido? Un’ipotesi potrebbe valere l’altra, non fosse che quella che si rifà a Guido parrebbe la più fondata, essendo la più pertinente con la Storia. Innanzitutto si collega in modo esplicito al luogo dove si può credere che le reliquie siano venute effettivamente alla luce, visibili e tangibili, solo nel 1187: ovvero dopo un lungo lasso temporale rispetto al 1098 originario. Gli 89 anni di silenzio tra le due date sono talmente tanti da indurre al sospetto che il fantasticare senza lo straccio di una prova concreta, abbia preso il sopravvento sulla realtà, almeno nella sua parte iniziale. Resta inoltre da chiedersi invano perché il “cavaliere crociato di questi luoghi” abbia deciso di rientrare alla base a Prima Crociata in corso e non conclusa, guarda caso nel 1098: perché questo è l’anno della liberazione d’Antiochia di Siria? Di per sé la motivazione è semplicistica e non regge. A favore di Guido il Grande conte di Biandrate c’è anche la sua stretta relazione con una parte fondamentale del Medioevo chierese. I legami con il Barbarossa, che lo rendevano tra i più inarrivabili per potenza e prestigio, potevano permettergli eccome un lungo e difficile trasferimento “garantito” di uomini e cose, reliquie comprese e dovevano sfociare altresì in una pagina nota ma non abbastanza evidenziata, come lo è invece la punizione del 1155, nel libro della storia locale. Stava per formarsi un intreccio importante, col contributo “di sangue” dato dai Biandrate alla nascita della nobile stirpe chierese dei Tana. I quali, a loro volta, ebbero a che fare con la nascita dell’Ordine religioso e militare dei Cavalieri Teutonici, avvenuta in Germania, a Lubecca e Brema, verso il 1190, con lo scopo di provvedere ai bisogni dei Crociati ammalati o feriti.

 

Si spera che queste pagine possano fare da stimolo verso ulteriori e più competenti ricerche ed iniziative varie. L’intento è quello di conferire a vicende del nostro passato preziose ed uniche come queste un connotato di rilevanza internazionale e non soltanto circoscritto ad uso e consumo locali.

 

 

Sabato 21 maggio 2005 la tradizionale Processione dei Santi Giuliano e Basilissa venne “una tantum” arricchita da un Corteo Storico, ambientato nel 1422: “Nell’anno del Signore MCCCCXXII, Amedeo VIII primo duca di Savoia arricchì la terra di Chieri dell’annuo privilegio di due fiere, che dovevano durare dieci giorni l’una; le quali il Comune ordinò che si tenessero la prima addì 21 maggio in cui si celebra la festa dei Santi Giuliano e Basilissa, Patroni dell’Agro Chierese, di cui riposano nelle chiesa di Santa Maria i beatissimi corpi; l’altra il 6 di novembre”.  

                                                                                                       

Angelo Tosco, da Una trilogia delle reliquie, aggiornamento.